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Dipendenza economica: come superarla con consapevolezza

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In occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, Azzurra Rinaldi, economista, professoressa, attivista e co-founder di Equonomics, dedica una riflessione a un particolare tipo di violenza, quella di natura economico-finanziaria. 

Il 25 novembre ogni anno si celebra la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne. E ogni anno speriamo che, prima o poi, non ci sarà più bisogno di ricordarci che questa violenza non dovrebbe proprio essere agita.

Quando ho pubblicato sui miei canali social la notizia del mio libro in uscita, il cui titolo è Le signore non parlano di soldi, oltre a molti commenti entusiastici ho raccolto anche diversi commenti di questo tenore: “che volgarità, queste donne che parlano di soldi!”, rivelatori sui canoni di adeguatezza associati alle donne, quando il tema è il denaro. Non sta bene, non è elegante. Peccato che, in una società capitalistica, il denaro rappresenti il fondamentale strumento di scelta e di libertà di ogni persona. E quindi, anche delle donne.

In questo ambito, i dati per l’Italia sono tutto fuorché incoraggianti. Secondo una ricerca Episteme di qualche anno fa, il 37% delle donne italiane non possiede un conto corrente nominativo: al massimo, lo ha cointestato con il marito o il compagno. Non è una banalità, perché, stando anche a quanto rilevano i centri antiviolenza, l’impossibilità di gestire il proprio denaro in autonomia è uno dei fattori che ritardano l’uscita delle donne dai percorsi di violenza.

E stando ai più recenti dati Istat, sul totale delle donne che hanno fatto accesso a tutti i centri antiviolenza sul territorio nazionale, 9 su 10 hanno subito violenza psicologica, 7 su 10 violenza fisica, 4 su 10 violenza economica.

Ma in realtà, per moltissimo tempo abbiamo fatto fatica anche a definire in maniera completa e condivisa cosa fosse la violenza economica e questo perché, culturalmente, la gestione del denaro è sempre stata appannaggio degli uomini.

Non fidatevi quando vi dicono che a casa loro i soldi li hanno sempre gestiti le donne: quello che le donne hanno storicamente gestito è sempre stato il cosiddetto pocket money, ovvero i soldini necessari per la spesa quotidiana. Certamente, non le decisioni di investimento, di acquisto, di mutuo (nella maggioranza dei casi).

Fortunatamente grazie alla Convenzione di Istanbul, la violenza economica è ora riconosciuta, ricompresa nella categoria più ampia della violenza domestica e definita come ogni comportamento di controllo sulla capacità di produrre e gestire autonomamente il denaro di un’altra persona.

Mi preme rimarcare come il problema sia innanzitutto culturale, perché finché alle donne viene abbinata un’immagine eterea e distante dal denaro, si sottrae loro la possibilità concreta di scegliere sulle proprie vite e le si tiene in una condizione perennemente infantile, ovvero in una condizione di dipendenza economica. Ricordiamo che la dipendenza economica è caratterizzata da tre fattori: l’impossibilità di far fronte con mezzi propri a uno shock finanziario inaspettato, il delegare strutturalmente ad altre persone la gestione del denaro e la mancanza di pianificazione finanziaria.

Ebbene, incrociando queste caratteristiche, il 22% delle donne italiane si trova in una condizione di dipendenza finanziaria.

Più di una donna su cinque. Quasi una su quattro. Un dato isolato, quello italiano: in Germania ed Austria, le donne in condizione di dipendenza economica rappresentano solo il 5% del totale, in Slovenia il 7%, in Polonia il 10%.

Cosa possiamo fare? Quali possono essere le soluzioni?

Per prima cosa, occorre partire da un’istruzione che agevoli la trasformazione culturale. È urgente educare le nuove generazioni (anche se ce ne sarebbe un gran bisogno anche tra quelle meno giovani). In particolare, come ha recentemente sottolineato anche la Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, On. Martina Semenzato, sono indispensabili azioni educative rivolte agli uomini per ribaltare la definizione tradizionale e patriarcale di mascolinità come possesso e controllo, che purtroppo è tuttora alla base di qualsiasi atto di violenza di genere ed anche specificamente della violenza economica.

Parallelamente, è necessario aiutare le donne ad identificare quei comportamenti che, sebbene appaiano comuni e a volte anche innocui, possono in realtà già configurarsi come violenza economica. Il partner che ci obbliga ad elemosinare ogni singolo giorno a soldi per fare la spesa, quello che ci controlla lo scontrino, che non ci dà l’assegno di mantenimento, che ci fa firmare delle carte della società che ci ha intestato e nella quale noi figuriamo solo formalmente, sta compiendo delle azioni che si configurano come violenza economica. Riconoscerle ci aiuta a capire che dobbiamo uscirne e chiedere supporto.

E cosa possono fare le donne nella loro vita quotidiana?

Due azioni sono fondamentali. Una per le loro figlie ed una per loro stesse.

Per le figlie: abituarle sin da piccole a costruire una relazione con il denaro. Dare loro la paghetta (anche minima) sin da quando hanno 7-8 anni, senza questionare su come possano spenderla. La socializzazione economica è un passaggio fondamentale per diventare adulte indipendenti che riconoscono il valore del denaro e si sentono a proprio agio nel gestirlo. Per loro stesse: normalizzare la conversazione sul denaro. Tra donne spesso si parla di tutto, ma non di soldi. E invece, è importante prendere spazio ed iniziare ad abitare anche questo ambito. Perché il denaro è un fondamentale strumento di libertà. Anche dalla violenza.

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