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Consumers & People

Parole che lasciano il segno: le trame invisibili della violenza psicologica

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Esistono molte forme di violenza; rispetto a quella fisica, che lascia delle tracce visibili sul corpo delle persone, quella psicologica, anzi, quelle psicologiche, al plurale, tendono a venire sottovalutate, pur essendo altrettanto gravi, anche se in maniera differente: intaccano primariamente il benessere mentale di una persona, ma possono arrivare a nuocere alla qualità della sua vita, e quindi anche al suo corpo. E per quanto sia giusto il principio secondo il quale tutte le persone possono essere soggette a violenze fisiche o psicologiche, è pur innegabile – le statistiche lo confermano – che le soggettività femminili sono maggiormente soggette a una serie di comportamenti abusanti, che quando rimangono nel piano dello psicologico tendono a venire minimizzati.

In questo ambito è gravissima, ma forse più facile da riconoscere, la violenza esplicita, che si manifesta tramite offese, epiteti, forme di scherno, giudizi sulla persona; per citare un caso specifico, la sociologa Graziella Priulla ci ricorda che ancora oggi le più comuni offese rivolte a una donna riguardano i suoi presunti comportamenti sessuali. Sono tutte manifestazioni di un pensiero ancora fortemente intriso di una tradizione patriarcale, secondo il quale la donna deve “stare al suo posto”.

Una forma più strisciante di violenza di genere è il continuo sminuimento delle competenze di una donna: per questo, a una professionista capita spesso di dover impegnare parte del suo tempo a dimostrare di essere capace quanto, se non più, di un uomo. Vari studi ci dicono anche che una donna viene mediamente interrotta più spesso di un uomo, quando parla, e viene ascoltata meno e con meno attenzione: reiterate nel tempo, anche queste sono forme di violenza psicologica, dato che intaccano l’autostima della persona, e richiedono un surplus di sforzo e impegno per venire gestite.

Lo spazio a disposizione non permette di entrare nel dettaglio di quanto accennato sopra; basti, al momento, avere consapevolezza della multiformalità della violenza di genere, che non è un fenomeno sistematico (non tutte la devono esperire, non tutte sono costrette a conoscerla), ma è sicuramente un fenomeno sistemico, cioè non è spiegabile come una mera serie di comportamenti individuali, di singole persone, ma viene invece alimentato dallo specifico humus culturale nel quale cresciamo, e che può portare a tali degenerazioni, anche se non per forza.

Possiamo, invece, soffermarci un po’ di più su quattro comportamenti che vengono messi in atto nelle discussioni e nelle interazioni sia offline sia online e che, benché non possano essere imputati strettamente a un genere, vengono messi in atto più spesso nei confronti delle donne. Sono modalità di discussione che, in maniera più o meno consapevole, invece che farla procedere, contribuiscono a bloccarla, a distruggerla, distraendola dal senso della stessa e disperdendo il discorso in rivoli collaterali in linea di massima irrilevanti. Questo, chiaramente, finisce per creare disagio alla persona che ne viene bersagliata.

  • Il primo comportamento che vorrei trattare è chiamato in inglese sealioning, cioè “comportarsi come leoni marini”. Questi animali sono notoriamente piuttosto ingombranti e poco agili nel muoversi; il sealioning, per analogia, consiste nel tempestare una persona di domande, di richieste di chiarimento, su questioni che esulano dal filo del discorso: “Ma qui cosa intendevi dire?”, “Puoi spiegare meglio questo particolare?”, “Il dato che citi da dove è stato preso?”, “Mi puoi chiarire in che maniera hai usato il termine xy?”, “Hai letto le osservazioni di zx sullo stesso tema? Potrebbero esserti utili…”. Lo scopo del sealioning è solo raramente quello di ricevere informazioni aggiuntive; piuttosto, è un modo per sovraccaricare la persona che sta cercando di portare avanti un determinato discorso in maniera coerente e coesa, costringendola a interrompersi continuamente e a deviare su questioni collaterali. Il motivo per cui questo è un comportamento aggressivo è abbastanza evidente: impedisce alla persona di esporre chiaramente, e in maniera indisturbata, le sue idee. Se uniamo queste informazioni al fatto che una donna, come già menzionato, vive più spesso l’esperienza di venire interrotta, si può comprendere come il sealioning venga più spesso rivolto a una persona di genere femminile che non a un uomo.
  • Il secondo comportamento è il tone policing, da police, cioè “fare la polizia del tono”. “Le tue istanze sono sacrosante, ma se usi quel tono, non va bene”; “Adesso cerca di dirlo senza gridare”; “Sarei anche d’accordo, ma perché non vi tranquillizzate un po’?”.

    Il tone policing sposta la discussione dal contenuto alla forma, che, per carità, è importante nella comunicazione, ma non deve diventare l’unica questione rilevante. Un insegnamento importante che ci ha lasciato Michela Murgia è che la rabbia, a volte, è lecita. E invece, soprattutto la rabbia femminile viene spesso interpretata come isteria, come debolezza di nervi, come disturbo mentale. Non sono rari i commenti come “Hai le tue cose, è per questo che sei alterata?”, invece di riconoscere la possibile validità del sentimento di rabbia. Spostare il fuoco di una discussione dal merito al metodo è chiaramente un’arma di distrazione, un modo per non rispondere direttamente rispetto alle questioni sollevate non riconoscendone l’importanza. Alla lunga, indugiare su questioni di forma fiacca l’interlocutore o l’interlocutrice, che, magari, per paura di risultare poco lucida, sceglierà – con frustrazione – la via del silenzio.
  • Il terzo comportamento è il gaslighting. In questo caso è più difficile trovare una traduzione letterale, dato che gaslight sarebbe la luce a gas, ma il riferimento è al titolo di un film del 1944, diretto da George Cukor e derivato dall’opera teatrale del 1938 Gas Light del britannico Patrick Hamilton. Nella pièce, un marito apparentemente gentile e premuroso tenta di condurre la moglie alla pazzia apportando dei continui, quasi impercettibili cambiamenti alla casa dove vivono (tra cui modificare l’intensità delle luci a gas presenti nei vari ambienti), tentando al contempo di convincerla che nulla di ciò che lei nota sta accadendo veramente; il tutto per poterla derubare dei suoi averi facendola internare come malata di mente. Oggigiorno il termine è usato nel significato di “manipolare psicologicamente (una persona), di solito per un lungo periodo di tempo, in modo che la vittima metta in dubbio la validità dei propri pensieri, la percezione della realtà o i propri ricordi e sperimenti confusione, perdita di fiducia in sé e autostima dubitando della propria emotività o stabilità mentale”; questa è la definizione del termine data dal vocabolario di inglese Merriam-Webster, che l’ha dichiarata parola dell’anno 2022.

    Il gaslighting si differenzia dalla semplice bugia occasionale perché solitamente è parte di una strategia che va oltre il singolo caso; è proprio tramite la reiterazione dell’atto di confondere che si porta l’altra persona a mettere in dubbio i suoi stessi pensieri. Si capisce bene, dunque, perché diventi particolarmente pericolosa se applicata in ambito professionale, oltre che personale.

    Non è affatto facile riconoscere il gaslighting. È difficile dimostrare che una cosa che ci viene rinfacciata, un’incoerenza, un cambio di idea, sia effettivamente successa, come pure il contrario; e se una persona ha una naturale propensione a mettersi in dubbio – ricordiamo che la sindrome dell’impostora colpisce più spesso le donne – è piuttosto facile mandarla in confusione. Si entra così in un circolo vizioso dal quale è estremamente arduo uscire: è la vera insidia di questa strategia discorsiva – ammesso che sia una strategia: esistono persone che mettono in atto questa strategia in maniera del tutto inconsapevole, come forma di autodifesa.
  • Infine, l’ultimo comportamento è il concern trolling, la manifestazione di un’apparente preoccupazione rispetto alla salute mentale della persona con cui si sta parlando (“Sei sicura di stare bene? Sembri alterata…”; “Ti vedo stanca ultimamente. Non è che dovresti riposare?”). Sebbene a volte la preoccupazione sia giustificata, non va sottovalutata la fatica data dallo stillicidio di un simile atteggiamento; il sovraccarico mentale che causa, infatti, può portare a vere e proprie forme di disagio mentale per chi le subisce. In fondo, si tratta di mettere continuamente in dubbio la lucidità e la competenza di una persona, facendo baluginare l’idea che magari questa sia in uno stato di anormalità o di scarsa lucidità.

Invito tutte le persone che sono arrivate in fondo a questo pezzo a non sottovalutare questi quattro comportamenti; comportamenti dei quali possiamo ritrovarci a essere vittime, certo, ma anche perpetratori o perpetratrici. Non sempre, infatti, sono volontari; a volte, si tratta di meccanismi automatici di autoprotezione. Questo, tuttavia, non li rende meno molesti e meno pericolosi. In fondo, la salubrità di un luogo condiviso (che sia o meno di lavoro) dipende da ogni persona che si trova a frequentarlo.

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